Uno studio su Nature individua alcuni biomarcatori per il rischio suicidario

Il tasso di mortalità nella fascia di mezza età negli Stati Uniti è aumentato dal 2000, attribuibile a vari fattori, inclusi i tassi crescenti di suicidio e overdose da droga. Questa tendenza ha portato a una diminuzione dell’aspettativa di vita media negli Stati Uniti, un declino verificatosi già dal 2014, prima della pandemia di COVID-19. Sebbene molti paesi abbiano registrato un aumento del suicidio, alcuni paesi in Europa e Sud America hanno visto una diminuzione. Queste variazioni nazionali sottolineano l’importanza di fattori socio-economici e psicosociali modificabili nel determinare il rischio di suicidio.

In questo contesto, uno studio si è posto l’obiettivo di analizzare il legame tra il disturbo depressivo maggiore (MDD) refrattario al trattamento e l’ideazione del suicidio.

Depressione e metabolismo: che legami ci sono?

La ricorrenza della depressione dopo il primo episodio è alta, così come il rischio di suicidio, contribuendo a una sfida crescente a livello sociale e medico. Nonostante i tentativi di identificare i geni responsabili della depressione refrattaria al trattamento, la ricerca ha mostrato risultati limitati, evidenziando l’importanza dei fattori ambientali, dello stress cellulare e delle interazioni gene-ambiente nei meccanismi di depressione e suicidio.

La metabolomica è un approccio emergente nella ricerca biomedica caratterizzata da uno studio globale del metabolismo di un organismo, cercando di carpire più informazioni possibili dalla mole di dati estrapolata dall’identificazione e lettura di tutti i metaboliti.

Questa metodologia ha fornito risultati promettenti in diverse condizioni, dalla sindrome da affaticamento cronico alla schizofrenia, e potrebbe offrire spunti utili per identificare pazienti a maggior rischio e aprire nuove direzioni di ricerca.

La stretta connessione tra metabolismo e comportamento suggerisce che la comprensione del metabolismo possa fornire nuovi approcci nella comprensione dei meccanismi biologici della depressione e del suicidio. Questa prospettiva può aiutare a individuare precocemente i pazienti a rischio e sviluppare nuove strategie di trattamento oltre che importanti spunti per lo sviluppo di nuovi approcci diagnostici biochimici.

Uno studio ha individuato un legame tra alcuni metaboliti e l’ideazione del suicidio: che cosa significa?

Le patologie mentali spesso sono considerate malattie di serie B portando spesso chi ne soffre sulla strada di una vera e propria stigmatizzazione che contribuisce a esacerbare ancora di più la condizione clinica del paziente.

La depressione spesso rientra a pieno titolo in questo tipo di dinamiche, anche se di fatto si tratta di una delle malattie mentali più pervasive, lascia una traccia non solo nella mente ma anche nel sangue di chi ne soffre. Uno studio condotto dall’Università della California a San Diego ha svelato un collegamento significativo tra il metabolismo cellulare e la depressione, aprendo prospettive sorprendenti nel campo della salute mentale.

Pubblicati su Translational Psychiatry, i risultati di questa ricerca promettono di personalizzare l’assistenza per i disturbi di salute mentale e identificare nuovi bersagli per trattamenti farmacologici futuri. Il Dr. Robert Naviaux, professore presso il Dipartimento di Medicina, pediatria e patologia dell’Università della California a San Diego, afferma: “Le malattie mentali come la depressione hanno effetti e meccanismi che vanno ben oltre il cervello”.

In passato, comprendere come la chimica corporea influenzasse il comportamento era una sfida. Tuttavia, tecnologie moderne come la metabolomica hanno rivoluzionato questa prospettiva, permettendo di esaminare le conversazioni biochimiche delle cellule, aprendo un mondo di opportunità nell’ambito della ricerca sulla salute mentale.

In cosa consiste lo studio?

La squadra di ricercatori ha esaminato il sangue di 99 individui con depressione refrattaria ai trattamenti disponibili e con ideazione suicidaria, confrontandoli con 99 persone senza questo disturbo. Tra centinaia di sostanze biochimiche, cinque sono emerse come biomarcatori distintivi del rischio suicidario. Tuttavia, il profilo di questi biomarcatori varia tra uomini e donne.

Naviaux sottolinea: “Su 100 persone, saremmo in grado di identificare correttamente tra l’85% e il 90% di coloro che soffrono di depressione grave e che sono maggiormente a rischio di suicidio, basandoci su cinque metaboliti per i maschi e altri cinque per le femmine”.

Un indicatore cruciale per entrambi i sessi è la disfunzione mitocondriale, che si verifica quando queste centrali energetiche cellulari non funzionano correttamente. I mitocondri, responsabili della produzione di energia nelle cellule, sintetizzano una molecola chiamata ATP, fondamentale anche per la comunicazione cellulare.

La presenza di ATP al di fuori della cellula è considerata un segnale di pericolo che attiva diverse vie protettive in risposta allo stress ambientale. Secondo i ricercatori, questo processo potrebbe essere parte di un impulso fisiologico più ampio, un tentativo del corpo di arrestare una risposta allo stress divenuta insostenibile a livello cellulare.

Un altro aspetto rilevante riguarda i diversi modelli di rischio tra uomini e donne, sottolineando la necessità di approcci personalizzati per trattare la depressione e il rischio suicidario.

Che conseguenze possono avere questi risultati?

La patogenesi dello stato depressivo ha in primo luogo origini psicodinamiche, le quali sono tuttavia contornate da uno substrato di fattori biologici che ne predispongono la comparsa.

Questo studio apre la porta alla delucidazione e alla comprensione più approfondita dei processi biologici che inferiscono sulla patogenesi della depressione e sull’ideazione del suicidio.
Questo può portare alla delineazione di una prospettiva più completa e olistica nel trattamento dei disturbi mentali.

Questi risultati non solo aprono la strada a potenziali trattamenti mirati, ma sollevano anche questioni etiche e pratiche. Come utilizzare queste informazioni in ambito clinico senza etichettare e stigmatizzare? Come garantire che questa conoscenza possa essere applicata in modo etico e sensibile?

I dati preliminari di questo studio sono promettenti, ma ulteriori ricerche e sforzi multidisciplinari sono necessari per tradurre queste scoperte in strumenti clinici affidabili ed eticamente responsabili.

Fonti

https://www.nature.com/articles/s41398-023-02696-9

 

 

 

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